Un’altra condizione essenziale per la preghiera autentica è l’abbandono. La sola parola in genere ci terrorizza, ma è qualcosa di indispensabile.
Ricordo di aver letto una storia, scritta da una donna che non ho mai incontrato. Nel suo articolo descriveva le sue umili origini: un appartamento senza l’acqua calda, il risparmio di poche lire per potersi comprare qualche piccola cosa. Poi incontrò l’uomo che sarebbe diventato suo marito: era la personificazione del principe azzurro. Non poteva quasi crederci quando le chiese di sposarlo. Tra l’altro, egli aveva qualche risparmio, così si trasferirono in una zona migliore, dove c’erano acqua calda, grandi finestre e prati verdi. C’erano persino fiori d’estate! Presto ci fu la gioia dei figli. Era tutto quello che lei aveva sempre sognato. Poi cominciò a sentirsi poco bene, andò da un dottore, il quale la mandò in ospedale per analisi. Non era affatto preparata quando il suo dottore la fissò con sguardo triste e le disse: «il suo fegato ha smesso di funzionare». Rispose quasi urlando: «Mi sta dicendo che sto per morire?». Con gli occhi abbassati, egli le disse solennemente: «Abbiamo fatto il possibile». Poi si girò e, in silenzio, uscì dalla sua stanza d’ospedale.
Sentì un fuoco di rabbia accendersi dentro. Nella sua disperazione voleva prendersela con Dio, così, in camicia da notte e vestaglia, si trascinò per i corridoi fino alla cappella. Voleva un confronto diretto. Si sentiva così debole che doveva appoggiarsi al muro mentre procedeva. Quando entrò nella cappella era buio. Non c’era nessuno. Continuò a camminare nel corridoio centrale fino all’altare. Durante tutto quello che sembrava un viaggio senza fine, dalla sua stanza alla cappella, aveva preparato le parole da dire: «Oh Dio, sei una fregatura, un vero impostore. Ti sei fatto passare per l’amore in persona per duemila anni. Ma ogni volta che qualcuno trova un po’ di felicità, gli togli il terreno da sotto i piedi. Beh, voglio solo farti sapere che l’ho capito, ti ho scoperto».
Nel corridoio, in mezzo alla cappella, cadde. Era così debole che a mala pena riusciva a distinguere le parole tessute nel tappeto ai piedi dell’altare. Lesse e poi ripetè le parole: «Signore, abbi pietà di me peccatore». All’improvviso tutte le parole piene di rabbia, tutto il desiderio di prendersela con Dio erano svaniti. Tutto quel che era rimasto era «Signore, abbi pietà di me peccatore». Poi abbassò la sua testa stanca sulle braccia incrociate ed ascoltò. Dal profondo del suo cuore udì queste parole: «È solo un invito per chiederti di abbandonare la tua vita nelle mie mani. Non l’hai mai fatto. I medici qui fanno del loro meglio per trattare la tua malattia, ma io solo posso curarti».
Nel silenzio e nel buio della notte, consegnò la sua vita a Dio: firmò il suo assegno in bianco e glielo restituì, perché Lui potesse scriverci quanto desiderava. Era l’ora di Dio, il momento del suo abbandono.
Ritornata nella sua stanza, si addormentò di un sonno profondo. Il giorno seguente, dopo le analisi di routine, il dottore le diede una notizia confortante: «il suo fegato sembra funzionare di nuovo». Come a Giobbe nell’Antico Testamento, Dio l’aveva portata sull’orlo del precipizio, ma soltanto per invitarla ad abbandonarsi a Lui. È la condizione iniziale indispensabile per la preghiera autentica. «Sia fatta la tua volontà» è una concessione grandissima, che può spaventare. Ci lascia nudi e senza difese. Niente più maschere, nessuna barriera protettiva, soltanto «Taci e sappi che io sono Dio».
Dal libro: JOHN POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 51997, 144-145.
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